La resistenza non esiste

La "resistenza" dell'altro è il travestimento della nostra rabbia, frustrazione, scoramento, e non responsabilità nello scambio.


Pensare che se qualcuno non cambia comportamento questo dipenda da “resistenze” interne all’individuo è assurdo.

 

E’ un approccio che implica un errore logico e due credenze.

  • L’errore logico è un paradosso che nasce dal confondere due diversi livelli logici: quello della nostra interpretazione e quello dei fatti.
  • Le credenze sono che la resistenza sia qualcosa che sta dentro chi resiste e che si possa cambiare con un’azione sull’individuo.

Per quanto folli sul piano logico e inutili sul piano pratico, questi errori e queste credenze non sono privi di conseguenze: creano profezie che si autoadempiono.

 

“Resistenza” è il nome dell’insieme in cui facciamo rientrare come elementi alcuni comportamenti, per esempio: rispondere ad una richiesta diversamente da quanto considerato adatto, non adempiere al compito affidato, prendere un’iniziativa non prevista, dissentire da una proposta e rifiutare gli ordini.

 

Se ricordiamo che “resistenza” è solo il nome della categoria con cui abbiamo catalogato i fatti, ci accorgiamo che non ha senso considerarla causa dei comportamenti che facciamo rientrare in quella categoria.

 

Considerando uno specifico comportamento di una persona come se fosse la categoria di comportamento in cui lo si fa rientrare, si innesca il meccanismo della profezia che si auto-adempie in quanto si impone nella relazione il modo di interpretare il comportamento.

 

Se viceversa rivolgiamo la nostra attenzione alla relazione, che è l’ambito in cui possiamo esercitare la nostra responsabilità, ci accorgiamo che non ha senso parlare di “resistenza” dell’altro, ma di scambio poco chiaro o poco vantaggioso.

 

Quando lo scambio è chiaro e vantaggioso per entrambi, la relazione prosegue con la negoziazione che specifica le modalità dello scambio. Quando c’è da parte nostra volontà di negoziare, niente appare come ‘resistenza’.

 

Quando rinunciamo alla negoziazione e alla nostra responsabilità nella relazione, siamo tentati di attribuire intenzioni e caratteri alle persone per renderle prevedibili. Poiché la nostra previsione apparirà vera, e poiché i nostri bisogni (a cui siamo ciechi) non saranno soddisfatti, ci consoleremo con una dose di droga in forma di giudizio sull’altro.

 

E così cadiamo nell’errore di reagire esercitando qualche violenza per manipolarlo (“ti punisco, ti educo, perché anche se ti ho dato una sberla non smetti di resistere”).

 

Questo è quel che accade ogni volta che qualcuno ci appare ‘resistente’.

 

Finché ci diamo compiti manipolatori (anche dai bei nomi tipo coinvolgere, creare impegno, responsabilizzare, dare autonomia, incoraggiare il cambiamento, comunicare i valori) ci troveremo di fronte mille resistenze.

 

Se viceversa ci manteniamo responsabili dello scambio, se ascoltiamo e collaboriamo a realizzare anche i suoi valori, non cadremo nella trappola di credere ad una mitologica “resistenza”.

 

Ogni cambiamento è lo sforzo di mantenere una qualche costante, dunque bisogna saper riconoscere e saper negoziare cosa si vuole mantenere per scegliere come cambiare.

 

Riconoscere quello che davvero vogliamo, ascoltare per capire quello che davvero vuole l’atro, oltre ad essere è un modo per trovare benessere in uno scambio vantaggioso, è un metodo di aderenza a se stessi perché il tempo della negoziazione con gli altri è il contesto in cui si riconosce la propria identità.